Antonio Giordano è un accademico, oncologo, patologo, genetista e ricercatore italiano. Nel 1993 individuò e clonò un nuovo gene oncosoppressore, l’RB2/p130, che ha funzione di primaria importanza nel ciclo cellulare controllando la corretta replicazione del Dna e prevenendo l’insorgenza del cancro. Nell’anno 2000, è stato portato a termine uno studio sul carcinoma polmonare. Si tratta del primo esempio di impostazione di terapia genica in un modello murino in cui era stato indotto un tumore polmonare. Introducendo il gene RB2/p130 funzionalmente attivo attraverso un retrovirus utilizzato come vettore, si è dimostrato come la crescita tumorale si riduca in maniera drastica dopo una singola iniezione di RB2/p130. Nel 2001 un altro studio effettuato in vivo ha dimostrato come l’RB2/p130 possa funzionare anche come inibitore dell’angiogenesi (la neoformazione di vasi che nutrendo il tumore, è alla base della crescita neoplastica). Oltre a RB2/p130, Giordano ha scoperto altri importanti regolatori del ciclo cellulare (e non solo), come CDK9 e CDK10, appartenenti ad una classe di proteine, le chinasi ciclina dipendenti che sono oggi importanti bersagli in terapie antitumorali all’avanguardia. Nel 2004 scopre l’NSPs (Novel Structure Proteins), una nuova struttura di proteine con un potenziale ruolo nelle dinamiche del nucleo durante la divisione cellulare. Una proteina in particolare (Isoform NSP5a3a) è altamente espressa nelle linee cellulari di alcuni tumori. «Sono nato a Napoli da una famiglia napoletana. Mio padre, Giovan Giacomo Giordano, era un medico patologo oncologo che ha svolto un lavoro molto importante nel campo della ricerca dei tumori e della cancerogenesi ambientale; mia madre, Maria Teresa Sgambati, era la figlia di un industriale pasticciere, Ernesto Sgambati, uno dei grandi fondatori della sfogliatella riccia. Sono cresciuto in un ambiente socio-culturale altamente stimolate che ha influenzato in maniera determinante il mio carattere. Da mamma ho ereditato l’abilità e la capacità di poter stare in pubblico; da papà, uomo molto rigoroso e poco sociale, la passione per lo studio e la ricerca. In questo contesto, sereno e agiato, a 17 anni decisi di seguire le orme paterne iscrivendomi alla facoltà di medicina ma nello stesso tempo di gettare anche le premesse per una mia identità. D’estate, invece di andare in vacanza, mi recavo per tre mesi negli Stati Uniti d’America e trovavo dei lavori negli ospedali e nelle università americane. L’ho fatto per quasi 5 anni e, appena laureato, a soli 23 anni, mi trasferii definitivamente a New York».​

Lì conobbe il premio Nobel James Watson...

«Il padre della genetica moderna. Nel 1953, insieme a Francis Crick and Maurice Wilkins, aveva individuato la celebre struttura a doppia elica del Dna. Mi diede la possibilità di lavorare nei suoi laboratori. È stata un’esperienza scientifica di incredibile valore formativo. Lì, nella culla della biologia molecolare, riuscii a fare delle scoperte importanti su quello che è il ciclo cellulare cioè scoprire proteine e geni che avevano un ruolo importante nella vita delle nostre cellule».

Cioè capire perché una cellula impazzisce e diventa tumorale?

«In termini tecnici è una cellula che prolifera in maniera incontrollata e si divide sempre. La cellula tumorale ha la caratteristica di essere immortale. Mi affascinava moltissimo cercare di capire come fermare questo processo degenerativo e trasformarlo da negativo in positivo». Mi fa tornare alla mente il film “Cocoon”... «Tutti noi sogniamo una longevità. La cellula normale nasce e muore ma sembra che il segreto della longevità sia paradossalmente nella cellula tumorale. Pensai che la scoperta di come si attivano questi meccanismi che la rendono immortale ci avrebbe rivelato il segreto della longevità. Avevo appena 24 anni e non era ancora specializzato. Venivo in Italia un paio di mesi all’anno per terminare la scuola di specializzazione in Anatomia ed Istologia Patologica all’Università degli Studi di Trieste, ma già lavoravo in maniera indipendente. Dopo quattro anni vinsi la mia prima cattedra di patologia e biochimica».

Quindi, bruciando le tappe, decise di mettersi in “proprio”. Perché?

«La mia sete di sapere, la voglia di indipendenza e le capacità innate di riuscire a gestire le relazioni sociali marciavano di pari passo e ad alta velocità. Ebbi un finanziamento federale di 2 milioni di dollari e aprii il mio laboratorio di ricerche. Ma non ero soddisfatto perché volevo acquisire anche finanziamenti da privati. Andai alla ricerca di imprenditori di successo e conobbi Mario Sbarro, un napoletano imprenditore illuminato e geniale che, a New York, aveva inventato il primo “fast food” all’italiana. Dopo le mie insistenze che durarono circa un anno, decise di fare una grande donazione che consentì di costituire la Sbarro Health Research Organization (SHRO), un ente pubblico che in 25 anni ha raccolto più di 40 milioni di dollari e che mi ha permesso di creare un laboratorio indipendente e di aiutare più di 400 ricercatori, anche italiani, che in questo periodo hanno frequentato i miei laboratori. Sono sparsi per il mondo e costituiscono il mio orgoglio. A New York sono rimasto quattro anni e mezzo poi sono andato a Philadelphia perché ho vinto una cattedra molto prestigiosa nell’università della città della Pennsylvania. Ci vivo e lavoro tuttora con la mia famiglia».

A questo proposito, come è composto il suo nucleo familiare?

«Sono sposato con Mina una docente di oculistica che insegna nella seconda università più importante al mondo e dove si occupa dell’occhio e delle sue patologie, e abbiamo tre figli Maria Teresa, Giovan Giacomo e Luca. Nasce a New York da madre di Ercolano e padre di Potenza. I cattivi hanno cercato di dire che il motivo del mio successo era dipeso proprio dall’avere sposato mia moglie ritenendola figlia di Sbarro. Nulla di più falso. Mina si chiama Massaro mentre Sbarro è il titolare dell’ Istituto che finanzia le miei ricerche. Per questa malignità ho querelato alcune persone».

Che rapporti ha con Napoli?

«È la mia città e le devo tutto. Innanzitutto, per onorare la memoria di mio padre, ho continuato il suo impegno sulla ricerca della cancerogenesi ambientale. Con il lavoro scientifico che facemmo negli anni 2007-2008 mostrammo che il numero dei tumori in Campania era più elevato di quello che veniva riportato dagli organi ufficiali. Inoltre andava ad aumentare e diventava critico nelle zone dove maggiormente c’era stato sversamento di rifiuti tossici».

Fa riferimento alla Terra dei Fuochi?

«Esatto. Il problema nasce da un rapporto chiaramente non corretto tra una certa imprenditoria e la camorra che per me ha la colpa “minore”».

Perché dice questo?

«Questa forma di criminalità organizzata non avrebbe raggiunto tali livelli se non si fosse collusa con la politica. Fortunatamente però lo Stato può anche contare su persone eccezionali. Tra queste, ho avuto la fortuna di collaborare con il Ministro Sergio Costa, che ha svolto un lavoro molto importante anche dal punto di vista investigativo e devo dire anche con alcuni politici e imprenditori profondamente onesti».

È stato più volte accusato di allarmismo e di arrecare danno all’industria alimentare della Campania...

«Niente di più falso. Se negli Stati Uniti si va nei supermercati o nei posti dove si vendono prodotti campani si nota una ricchezza e un aumento dei prodotti della nostra terra come mai vista negli ultimi dieci anni. Questi prodotti, grazie anche al nostro lavoro e alla presenza e all’assistenza di imprenditori onesti , sono tra i più controllati. Rispettano le regole che disciplinano la filiera alimentare. Il grande problema è rappresentato da quelli che lavorano in nero, vendono in nero, non seguono le regole e cercano di entrare nei mercati mettendo a repentaglio la salute dei cittadini».

Nel 2004 ha avuto, per chiamata “per chiara fama”, la cattedra di Anatomia e Istologia Patologica del Dipartimento di Biotecnologie Mediche ed Oncologia Sperimentale dell’Università di Siena. Poi nel 2007 l’Istituto Tumori Pascale di Napoli ha chiesto la sua collaborazione per essere aiutato a fondare il Centro di Ricerche Oncologiche di Mercogliano (CROM)...

«Anche l’incarico al Pascale, che svolgo “pro bono” come tutti gli altri che mi vedono impegnato in Italia, l’ho accettato per rendere omaggio alla memoria di mio padre che, da primario e direttore scientifico dell’Istituto, ha combattuto con sacrificio e grandi difficoltà la diffusa corruzione e collusione che ancor prima di “mani pulite” vedeva protagonisti politici locali, medici e i vertici dell’Istituto. L’abnegazione di mio padre ha contribuito in maniera determinante a rendere oggi il Pascale un fiore all’occhiello per la sanità pubblica. Ai vertici ci sono persone di alta qualità e di indubbia onestà. Cito il direttore scientifico, Gerardo Botti, che è stato l’ultimo allievo di mio padre, il direttore generale Attilio Bianchi, persona illuminata e molto vicina ai giovani, l’avvocato Carmine Mariano che dimostra grande qualità e capacità nella gestione amministrativa. Il centro di Mercogliano raccoglie più di 40 ricercatori ed è un gruppo di giovani molto forte che il Pascale ha assimilato nei suoi programmi. Interagisco molto con il Professore Michelino De Laurentiis, un oncologo molto bravo e con i giovani ricercatori che sono collegati con Philadelphia con un ponte virtuale».

Sta affrontando la grande sfida della Scuola Superiore del Meridione. Di che cosa si tratta?

«Tutto è nato da una telefonata del Ministro del Miur Marco Bussetti. Ero in America e mi convocò a Roma per una questione che riguardava Napoli e il Meridione. Solo una breve esitazione per cercare di riorganizzare la mia agenda e prenotai il volo. Quando mi ricevette mi disse: “professore, vorrei darle un incarico molto importante per me e per il mio ministero. Teniamo moltissimo alla nascita della Scuola Superiore del Meridione. Vorrei che facesse parte del comitato che sto formando per sviluppare il programma della Scuola che opererà in maniera assolutamente indipendente. Con lei ci saranno il rettore della Federico II, Gaetano Manfredi, il professore di diritto privato dell’ateneo federiciano, Giuseppe Recinto, il prorettore dell’università della Campania Gianfranco Nicoletti e il professore Pierdomenico Perata della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Siete persone di alto spessore e vogliamo che i giovani del Sud abbiano questo programma post-laurea”. Non sapevo della grande polemica che c’era con la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ho accettato con entusiasmo chiarendo che non voglio nessun coinvolgimento politico. La politica in Italia finanzia la cultura e la condiziona. Quando questo accade non è più cultura perché questa si genera e deve essere messa a disposizione degli altri, per arricchirli e istruirli rendendoli indipendenti, non soggiogati. Solo in questo modo la popolazione cresce. Porterò avanti questa sfida finché si manterranno questi presupposti».

Ama Napoli ma anche il Calcio Napoli...

«Sono tifosissimo della nostra squadra e lo sono anche i mei figli che oltretutto parlano benissimo la nostra lingua napoletana. Ho un ottimo rapporto con Aurelio De Laurentiis e con Carlo Ancelotti. Stiamo sviluppando un lavoro sul Dna degli atleti per prevenire gli infortuni. Il progetto è partito con il dottore Alfonso De Nicola. Da studi recenti la nostra squadra è quella che a livello europeo ha subito meno infortuni».

Quanto le è servito essere napoletano per vivere negli Usa?

«Moltissimo. La mia napoletanità, che è quella autentica per educazione e cultura, mi ha dato l’opportunità di integrarmi e di essere immediatamente competitivo in un paese a sua volta molto competitivo dove a nessuno è preclusa la possibilità di realizzare “il grande sogno americano”».

Che cosa ha di particolare questa “napoletanità”?

«La capacità di gioire e di soffrire, di ironizzare su gioia e sofferenza, di sopravvivere nelle negatività, l’arte di arrangiarsi e la capacità di fare la differenza. L’abilità che hanno i napoletani di integrarsi in qualsiasi sistema diventa poi spettacolare quanto maggiore è il rigore del contesto».

Ma c’è anche la camorra...

«Altrove si chiama ndrangheta, sacra corona unita, mafia. Ricordo che ci fu un mio professore universitario che durante un colloquio privato mi disse: “Antonio tu devi capire una cosa: a Napoli si chiammano mariuoli, a Milano si chiamano finanzieri”. In questa frase c’è una verità sacrosanta che spiega molte cose».