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Professional social network di Antonio Giordano

[Rita Cantalino per A Sud] Quando abbiamo iniziato il percorso di Veritas eravamo tanto entusiasti ma veramente poco consapevoli di cosa stesse per accaderci. Un conto è pensare all’utilità di un progetto, a quanto può supportare e arricchire la battaglia di un comitato che prova a difendere il proprio territorio, un altro conto è rendersi conto di come, anche tu, uscirai diverso da quell’esperienza. Ogni idea progettuale, inoltre, ha una serie di obiettivi che tu fissi prima, sui quali ragioni in maniera schematica, “progettuale” insomma, e poni come strumento di valutazione sulla riuscita o meno delle tue attività: quando però la tua idea è veramente potente, essa si arricchisce via via di diversi obiettivi e via via riesce a sollevare, una dopo l’altra, una serie di questioni cui ti senti chiamato a rispondere.

Tutto è cominciato in un bar di Piazza dei Martiri, davanti a un caffè e a un numero improponibile di sfogliatelle: noi arrivavamo da Roma per incontrare il professor Giordano, gli attivisti della Rete di Cittadinanza e Comunità e i ragazzi e le ragazze che, in Campania, portano avanti le attività di A Sud. È stato un incontro sui generis per la sua cordialità: volevamo pensare insieme un progetto, dovevamo parlare dei malati oncologici della Terra dei Fuochi e della tragedia che gli attivisti vedono ogni giorno passare davanti agli occhi, ma il clima era sereno ed entusiasta perché stavamo parlando del loro progetto, della loro idea che da tanto tempo volevano realizzare e quell’entusiasmo ci ha travolte immediatamente.

In sostanza il punto era questo: “vogliamo realizzare uno studio sul sangue dei malati di cancro in Terra dei Fuochi, vogliamo capire se nel loro sangue c’è qualcosa di anomalo e se è connesso al territorio contaminato in cui vivono”. Quando una realtà che protesta riesce a fare uno scarto del genere e passa non solo alla proposta, ma agli strumenti per realizzarla, la spinta mobilitativa che riesce ad attivare può essere incontenibile. 

Abbiamo pensato a lungo a questo progetto, a quali e quanti aspetti dovesse toccare: analisi cliniche, studio scientifico, ma non poteva bastare soltanto questo.

Da un lato c’era il necessario fronte pubblico da affrontare: chi, come e quanto sarà investito dalle informazioni che riusciremo a intercettare? Come facciamo a fare in modo che questo studio scientifico non resti carta morta e che sia utilizzato per rivendicare, a tutti i livelli, giustizia ambientale per i cittadini campani? Quando avremo dimostrato quello che vogliamo dimostrare, come faremo in modo che non si parli di altro e che finalmente le Istituzioni siano chiamate alle loro responsabilità?

Dall’altro lato c’erano loro, i protagonisti immediati del progetto: i pazienti. I pazienti da reclutare, i pazienti da accompagnare, i pazienti cui prelevare una goccina di sangue e un capello, i pazienti da tutelare, i pazienti a cui dare risposte quando, con in mano i risultati dei loro prelievi individuali, ci chiedevano che fare della loro contaminazione.

È stato un lavoro lungo e complesso: superare il velo di diffidenza di chi ha dovuto accettare – o sta provando a farlo – la propria malattia e a cui viene richiesto di rimettersi in gioco, di farsi strumento e tramite del disvelamento di una verità che forse, comunque, non basterà a salvarlo. Senza i nostri attori territoriali, il lavoro dell’equipè di reclutamento e quello della Rete di Cittadinanza e Comunità, che ha generosamente messo a disposizione il proprio patrimonio di fiducia da parte dei cittadini campani, sarebbe stato probabilmente impossibile.

E quando sono arrivati i risultati, è stato anche peggio! 

Cosa rispondi a una persona che, grazie a te, scopre di essere intossicata? Che ti chiede ora cosa farsene?

Qui è arrivata la fase forse più critica ma anche la più stimolante del progetto. Esistono delle strutture sanitarie deputate a rispondere a problematiche così complesse? Ci siamo rivolti immediatamente ai Centri Anti Veleni, sperando di trovare una sponda istituzionale, all’interno del sistema, per fare breccia e costruire soluzioni. Peccato che, in un territorio come la Campania, interessato dalla presenza di 2 Siti di Interesse Nazionale per le Bonifiche e 4 Siti di Interesse Regionale (almeno quelli riconosciuti dal Ministero, ci sarebbe da confrontarsi con la realtà di un territorio devastato), le strutture anti veleni non siano attrezzate a rispondere alla richiesta dei pazienti di disintossicarli dai veleni. Possiamo trovarvi dei protocolli per le punture di insetto, per l’ingestione accidentale di veleni, perfino per i morsi di serpente: se però vivi in Terra dei Fuochi non sarà un Centro Anti Veleni a occuparsi dei veleni che ti stanno ammazzando.

“Manca un protocollo unico di disintossicazione”, “Non è possibile istituirlo perché ogni livello di contaminazione è diverso dagli altri”, “Occorre trovare una risposta singola, individuale, a ogni caso”: “non siamo la struttura deputata a farlo”.

Chi deve farlo, allora?

Uno degli elementi più interessanti di questo progetto è stato esattamente questo: la capacità che ha avuto di stressare il sistema, di porgli degli interrogativi cui nessuno sapeva rispondere, che nessuno si era posto. E la vicenda del CAV, in Campania, risulta particolarmente emblematica per questa ragione: uomini, donne, bambini cui noi ci siamo assunti la responsabilità di svelare la presenza di contaminanti nel sangue, che non hanno trovato risposta presso le istituzioni. Che hanno assistito a un vergognoso quanto imbarazzante rimpallo di responsabilità.

La struttura locale non è in grado di rispondere, nella misura in cui dovrebbe assumersi la responsabilità di pensare e suggerire una cura a ogni singolo paziente. Non esiste un protocollo nazionale cui rifarsi, per cui sarebbe tutto da inventare da zero, e nessuno vuole una responsabilità del genere. Il Ministero dal canto suo non ha previsto nemmeno l’eventualità di una situazione del genere. Strano, nel Paese delle Contaminazioni, ma evidentemente deve essere un primato che ci piace e che vogliamo conservare.

Chi può intervenire allora? Perché al netto delle riflessioni il paziente con in mano il foglio con le proprio analisi è ancora davanti a noi, ci chiede ancora cosa deve fare. Ne abbiamo visti decine: persone rassegnate, persone combattive, bambini e bambine che avevano affrontato l’inferno ed erano terrorizzati da una punturina su un dito. Ce li abbiamo tutti davanti, con in mano i fogli con i risultati delle proprie analisi, lo sguardo interrogativo e nessuno che si preoccupi di rispondere loro.

Noi dal canto nostro abbiamo fatto quello che abbiamo potuto: li abbiamo raccolti, tutti quei fogli, e li abbiamo inviati lontano, in America. Lì, a Philadelphia, il professor Giordano e la sua equipè dello SBARRO HEALTH RESEARCH ORGANIZATION hanno processato i dati, eseguito studi e calcoli, per mostrare qual è il trend e cosa quei fogli, tutti insieme, ci dicono.

I risultati saranno scritti, nero su bianco, su una rivista scientifica. Questo vuol dire che sarà validato scientificamente quello che il nostro progetto è riuscito a mostrare. Che sarà attestato che all’interno dei malati di cancro che vivono la Terra dei Fuochi ci sono dei veleni. Che quei veleni sono legati alla contaminazione del territorio. Che se qualcuno adesso è realmente interessato a fare 2+2, gli elementi per farlo ci sono tutti.

Si tratta di uno studio piccolo, certo. È una ricerca pilota: serve a noi per dire “Se non avete ancora trovato il nesso è perché non avete ancora cominciato a cercarlo: fatelo così”.

Quello che vogliamo sapere ora, è cosa faranno loro.

Per approfondimenti

https://asud.net/sta-per-succedere-qualcosa-di-grosso/?fbclid=IwAR3...

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