Oggi il vasto campo delle teorie sulla persona nel campo psicologico ed il panorama che offre la cura psichica è tale, con le sue innumerevoli varianti, spunti teorici e differenziazioni, che il tentativo di offrirne una sintesi chiara risulterebbe impresa assai complessa e inutile. D’altra parte l’instabilità attuale del sapere "psy" e il rapido sovrapporsi di nuovi orizzonti scientifici (neuroscienze) impediscono di proporre una modalità di conoscenza umana che non sia transitoria, fugace. Pertanto il nodo fenomenologico di fondo da parte del clinico, nella cura psicologica-psichiatrica, è quello del comprendere/intuire[1](affioramento coscienziale) versus spiegare ed interpretare ciò che accade nella psiche del paziente. Ogni cura dovrebbe permettere l’affioramento del vissuto emotivo, non impedire il disvelamento, dando inizio alla consapevolizzazione degli impliciti personali culturali, doxici, ideologici, le loro contrapposizioni e conflitti, le loro capacità di imprigionamento, limitazione, lacerazione, dolore[3].
Possiamo così intervenire durante o dopo uno stato o crisi nevrotica, psicotica o depressiva, pur riconoscendo una differenza fra la sofferenza rigida psicotica e la sofferenza fluente nevrotica[2]
«Il pericolo che le crisi ontiche, il dramma delle grandi scelte, i cambiamenti radicali della vita siano etichettati come crisi nevrotiche o psicotiche è sempre maggiore, a mano a mano che la psichiatrizzazione e la psicanalizzazione incolta si radicano nel campo sociale allargato[4]».
Lo studio delle esperienze psichiche si muove entro l’orizzonte epistemico della psicoterapia, della psicologia e dell’antropologia, la quale sono, per principi, scienze umane e soprattutto paradigmi, modelli, che provengono dalla soggettività/alterità nella sua costitutiva diversità.
I “saperi” della psiche (o sulla psiche) si intrecciano con la cura dell’altro, con le molteplici forme di alterità legate alla nascita e costituzione di una identità[5].
Qualunque attività psichica, di sperimentazione e di ricerca, si connette con l’orizzonte continuamente mutevole del tempo, con le concezioni sul «disagio» che vanno modificandosi senza posa. Nel nostro caso sarà utile definire tali prassi, come suggerisce Piro, multiaccadimentali: nel campo delle antropologie trasformazionali ad esse legate, ovvero sulle prassi destinate alla trasformazione degli altri («insegnamento», «cura») e al campo sociale («pratica sociale allargata») il lavoro non può che configurarsi come molteplice.
Alcuni attenti ricercatori hanno preso atto che oggi sono necessari mutamenti importanti di teoria, di prassi, di comprensione, affinché l’impegno nella cura della sofferenza non diventi copertura ideologica, non si risolva in un mistificante inganno.
«La ricerca che qui si presenta non ha nessuna possibilità di stabilità, perché continuamente muta l’osservato principale: l’accadere dell’accadere umano. Così, ad ogni grado micro-epocale nella vita delle genti del pianeta, a ogni mutamento di orizzonte filosofico-scientifico ed epistemologico nella ricerca, a ogni salto nel mondo delle arti, dell’espressione, dei media, dei costumi, della tecnologia, della comunicazione, si trasformano, insieme e irrimediabilmente, l’osservato antropico, gli strumenti osservazionali e semiografici, le narrazioni antropologiche che ne derivano» (Piro S. 1999).
Fra i diversi possibili modelli ermeneutici del comprendere[6] la psicoterapia si basa su un comprendere che cerca di analizzare il mondo dell’altro, di ritrovare il mondo vissuto nella individuale esperienza, specialmente nella forma dell'esperienza vissuta, a volte mediante processi di identificazione con l’altro[7].
E’ risaputo che ogni identificazione si lega al fatto che tutti noi possiamo rivivere gli aspetti formali dell’attività psichica dell’altro anche se i contenuti ci resteranno sempre estranei in quanto irriducibilmente altrui.
La comprensione di un atto psichico è quindi alla base di un rispecchiamento immaginario nell’altro[8], di un auto-comprendersi, in un gioco di domande e confronti.
La ricerca psicologica ha il merito di aver posto la doppia dicotomia comprendere vs. spiegare e comprensibilità vs. incomprensibilità proprio nel cuore della cura. E' possibile comprendere e spiegare chi soffre e ci parla della sua alienità mediante le parole. L’oggetto è l’accadere psichico reale e cosciente. Noi vogliamo sapere che cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze e come le vivono[9].
«Deve esserci in lui [nello psicopatologo] come una immedesimazione nell’altro [....] Lo psicopatologo è legato alla propria capacità di vedere, di sperimentare interiormente e alla propria ampiezza di orizzonti, all’apertura verso nuovi problemi e alla propria ricchezza spirituale»[10].
L’unico strumento che lo psicologo [11], sperimentatore del tempo che sopravviene, può usare durante una cura è se stesso in rapporto alla soggettività dell’altro, attraverso il palpitare della propria anima all’unisono con le vicende altrui (Jaspers).
E’ sicuramente appare utile descrivere alcune categorie fenomenologiche del disagio più dell’inconscio[12], che possano aiutarci a capire il mondo umano, qualcosa di quello che accade e avviene nella soggettività ovvero nella interiorità di ciascuna persona quando la sofferenza psichica e l’ansia si accompagna ad uno stato di crisi oppure al vivere, all’esistenza, alle esperienze psicopatologiche[13].
Seguendo tale spunto si è persuasi che il sapere curativo non dovrà essere teorico, ma mirerà a trasformare l’interiorità dello stesso ricercatore e clinico e ad aprirne le infinite possibilità.
Infatti, il fondo misterioso di ciascuno di noi e non solo nel campo della clinica, è la possibilità di essere, dunque la libertà di vivere e cogliere la relazione con l’altro. Occorre tener presente che la scienza psicologica è essenzialmente giovane, ha favorito l’identificazione, culminata già nel positivismo ottocentesco, dell’essere con l’essere conosciuto, ossia con l’oggettività stessa (la persona è oggetto del sapere e chi indaga è un altro essere umano). In tal modo l’uomo si è eretto a misura di tutte le cose e, con la tecnologia figlia della cultura scientifica moderna, ha preteso di dominare l’essere invece di riconoscerlo come orizzonte irriducibile a ogni determinazione concettuale[14].
NOTE
[1] Possiamo solo osservare o cercare di comprendere? Ma cosa significa ‘comprendere’? ‘Prendere con’, «(dal latino comprehensio, -onis) è l’atto e la capacità di capire, cioè di ‘afferrare’ (cum-prehendo, cioè ‘afferro insieme cose che stanno dinanzi a me’) con la ragione un contenuto conoscitivo». Noi conosciamo il corpo sano che può ammalarsi e morire, e dobbiamo affrontare e cercare di curare la malattia per ottenere una guarigione del corpo stesso. Ottenere una restitutio ad integrum di qualcosa che prima c’era e poi si ammala, si rovina, si distrugge. Quindi abbiamo l’obbligo di fare una diagnosi per poi proporre una cura per la guarigione. Il difficile sta nel portare il metodo medico alla psicologia che deve affrontare una malattia della mente che non è un’alterazione organica del cervello o di una parte del corpo. Una distruzione del pensiero dell’essere umano che si è ammalato, e che si esprime magari con un’alterazione del comportamento e del linguaggio, cela nascosta una frattura più profonda che incute paura e per questo è stata sempre considerata inconoscibile. Fare una diagnosi per poi proporre una cura per la guarigione che sia una trasformazione nei riguardi della realtà psichica umana. La realtà materiale, al contrario, non può essere trasformata, il corpo umano così è alla nascita e può solo svilupparsi, le braccia restano braccia e le gambe restano gambe. E anche la natura può essere migliorata, può financo essere distrutta dagli uomini, ma non trasformata.
[2] La sofferenza fa parte della vita di ogni uomo e della storia del mondo. La sua ineludibile presenza costituisce per la riflessione un problema che implica drammatici interrogativi intorno ai quali si sono affaticati numerosi studiosi. Per molti autori, filosofi e scrittori il problema della sofferenza è visto in relazione ai suoi risvolti sulla visione del mondo, che l’esperienza del dolore, sia esso fisico o morale, comporta.
[3] Volendo usare un linguaggio “poco psy” potremmo dire che la cura ampliamento (degli orizzonti personali), diffusione (di prassi positivi nella vita), disidentificazione, dissoluzione semantica interiore (Piro),disvelamento dell’implicito.
[4] Piro S., Critica della vita personale, La città del sole, Napoli, 1995, p.11.
[6]Comprendere o la sua contro-faccia in negativo, sono divenute parole-chiave della psicopatologia clinica, della psicologia e della psicoterapia. Comprendere vuol dire, polisemia.
[7] Questa impossibilità a comprendere dell’osservatore-partecipe ha valore conoscitivo se è un limite toccato continuando peraltro a cercare di comprendere. Il comprendere utilizzato dallo psicologo non si arresta quindi tanto presto. Dal punto di vista intersoggettivo ognuno di noi ha provato la improvvisa e dolorosa esperienza disgiuntiva che emerge in presenza di uno stato di e-straniamento: è una esperienza più netta che quella della irrazionalità ad esempio espressa in comportamenti stravaganti o enigmatici ritiri, dietro i quali uno può sempre sperare o illudersi di ritrovare motivi comprensibili.
[8] In tale processo di empatia, rispecchiamento/identificazione con l’altro giocano, secondo recenti studi, i neuroni specchio ma anche processi immaginifici che ci possono allontanare da una reale comprensione dell’altro. Si può irridere l’empatia considerandola una trappola per il clinico. In realtà l’empatia è per la riduzione fenomenologica la possibilità che abbiamo di riconoscere l’altro come soggetto, come sorgente autonoma di desideri, bisogni, emozioni. In una parola di fondare la costituzione del mondo intersoggettivo nel quale tutti viviamo, e nel quale la costituzione dell’Altro è co-costitutiva della stessa ipseità.
[9] Jaspers K. (1913 - 1959) Psicopatologia Generale. Il Pensiero Scientifico, Roma 1965, p 2.
[11] Alcuni concetti fondamentali di Jaspers, e in parte derivati da Dilthey, sono stati: la distinzione fra "comprendere " in sede psichica e "spiegare" in sede naturalistica; il valore essenziale della “forma” assunta dalla vita mentale come assai più importante degli individuali contenuti per definire i disturbi psicotici; la metodica di avvicinarsi ai vissuti dell’altro con uno sforzo di immedesimazione costante e consapevole; il valore dello strumento “empatico” per poter rivivere in noi l’esperire altrui.
[12] Volutamente chi scrive intende tenersi alla larga dal concetto freudiano e della psicologia analitica di inconscio onde evitare furvianti analisi. Nonostante alcuni filosofi avessero alluso a fenomeni della psiche non accompagnati da consapevolezza: il primo a utilizzare la parola ‘inconscio’ (das Unbewusste) è stato Schelling nel 1800 in una pagina del Sistema dell’idealismo trascendentale. Schelling si riferisce a un’entità spirituale che trapassa i confini della psiche individuale e sancisce così la caratteristica di inconoscibilità dell’inconscio. L’inconscio è dunque qualcosa che non si può conoscere e che guida il mondo al di là della volontà degli esseri umani. Utilizzare la parola Unbewusste come sostantivo e non come aggettivo determina che l’inconoscibile non potrà mai essere conosciuto e condanna gli esseri umani a essere in balia di forze oscure. «Il termine tedesco è un sostantivo, c’è l’articolo das, non è aggettivo [...] nell’inconoscibile, il discorso è spirituale, quindi degno soltanto di credenze» (Fagioli M., L’IDEA della nascita umana. Lezioni 2010, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2015, p. 142). Ma noi sappiamo che esistevano altre parole tedesche che tentavano di indicare il non-cosciente, tra cui das Ungewusste (‘il non saputo’), che poteva lasciare la libertà di tentare di scoprire ciò che ancora non era conosciuto. Schelling sceglie das Unbewusste (‘l’inconoscibile’), che contiene un significato profondo di impossibilità di conoscenza. Lo sconosciuto, il non ancora conosciuto ma con possibilità di conoscenza, diventa inconoscibile.
[13] Il mondo è oggetto della conoscenza scientifica: nel loro dominio le scienze hanno una validità universale e vincolante, ma la necessità del sapere scientifico è ipotetica e non assoluta: essa si fonda o su fatti che sono irriducibili alle leggi della logica o su postulati non evidenti per se stessi.
[14] Seguendo le tracce di Anassimandro (VII-VI sec. a.C.), Jaspers indica l’essere come il “tutto-abbracciante” (periéchon), che mai potrebbe essere circoscritto, ossia entificato. L’uomo non può essere ridotto ad oggetto.
Sui modelli ermeneutici del comprendere (curare)
da giuseppe errico
4 Gen 2019
Oggi il vasto campo delle teorie sulla persona nel campo psicologico ed il panorama che offre la cura psichica è tale, con le sue innumerevoli varianti, spunti teorici e differenziazioni, che il tentativo di offrirne una sintesi chiara risulterebbe impresa assai complessa e inutile. D’altra parte l’instabilità attuale del sapere "psy" e il rapido sovrapporsi di nuovi orizzonti scientifici (neuroscienze) impediscono di proporre una modalità di conoscenza umana che non sia transitoria, fugace. Pertanto il nodo fenomenologico di fondo da parte del clinico, nella cura psicologica-psichiatrica, è quello del comprendere/intuire[1] (affioramento coscienziale) versus spiegare ed interpretare ciò che accade nella psiche del paziente. Ogni cura dovrebbe permettere l’affioramento del vissuto emotivo, non impedire il disvelamento, dando inizio alla consapevolizzazione degli impliciti personali culturali, doxici, ideologici, le loro contrapposizioni e conflitti, le loro capacità di imprigionamento, limitazione, lacerazione, dolore[3].
Possiamo così intervenire durante o dopo uno stato o crisi nevrotica, psicotica o depressiva, pur riconoscendo una differenza fra la sofferenza rigida psicotica e la sofferenza fluente nevrotica[2]
«Il pericolo che le crisi ontiche, il dramma delle grandi scelte, i cambiamenti radicali della vita siano etichettati come crisi nevrotiche o psicotiche è sempre maggiore, a mano a mano che la psichiatrizzazione e la psicanalizzazione incolta si radicano nel campo sociale allargato[4]».
Lo studio delle esperienze psichiche si muove entro l’orizzonte epistemico della psicoterapia, della psicologia e dell’antropologia, la quale sono, per principi, scienze umane e soprattutto paradigmi, modelli, che provengono dalla soggettività/alterità nella sua costitutiva diversità.
I “saperi” della psiche (o sulla psiche) si intrecciano con la cura dell’altro, con le molteplici forme di alterità legate alla nascita e costituzione di una identità[5].
Qualunque attività psichica, di sperimentazione e di ricerca, si connette con l’orizzonte continuamente mutevole del tempo, con le concezioni sul «disagio» che vanno modificandosi senza posa. Nel nostro caso sarà utile definire tali prassi, come suggerisce Piro, multiaccadimentali: nel campo delle antropologie trasformazionali ad esse legate, ovvero sulle prassi destinate alla trasformazione degli altri («insegnamento», «cura») e al campo sociale («pratica sociale allargata») il lavoro non può che configurarsi come molteplice.
Alcuni attenti ricercatori hanno preso atto che oggi sono necessari mutamenti importanti di teoria, di prassi, di comprensione, affinché l’impegno nella cura della sofferenza non diventi copertura ideologica, non si risolva in un mistificante inganno.
«La ricerca che qui si presenta non ha nessuna possibilità di stabilità, perché continuamente muta l’osservato principale: l’accadere dell’accadere umano. Così, ad ogni grado micro-epocale nella vita delle genti del pianeta, a ogni mutamento di orizzonte filosofico-scientifico ed epistemologico nella ricerca, a ogni salto nel mondo delle arti, dell’espressione, dei media, dei costumi, della tecnologia, della comunicazione, si trasformano, insieme e irrimediabilmente, l’osservato antropico, gli strumenti osservazionali e semiografici, le narrazioni antropologiche che ne derivano» (Piro S. 1999).
Fra i diversi possibili modelli ermeneutici del comprendere[6] la psicoterapia si basa su un comprendere che cerca di analizzare il mondo dell’altro, di ritrovare il mondo vissuto nella individuale esperienza, specialmente nella forma dell'esperienza vissuta, a volte mediante processi di identificazione con l’altro[7].
E’ risaputo che ogni identificazione si lega al fatto che tutti noi possiamo rivivere gli aspetti formali dell’attività psichica dell’altro anche se i contenuti ci resteranno sempre estranei in quanto irriducibilmente altrui.
La comprensione di un atto psichico è quindi alla base di un rispecchiamento immaginario nell’altro[8], di un auto-comprendersi, in un gioco di domande e confronti.
La ricerca psicologica ha il merito di aver posto la doppia dicotomia comprendere vs. spiegare e comprensibilità vs. incomprensibilità proprio nel cuore della cura. E' possibile comprendere e spiegare chi soffre e ci parla della sua alienità mediante le parole. L’oggetto è l’accadere psichico reale e cosciente. Noi vogliamo sapere che cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze e come le vivono[9].
«Deve esserci in lui [nello psicopatologo] come una immedesimazione nell’altro [....] Lo psicopatologo è legato alla propria capacità di vedere, di sperimentare interiormente e alla propria ampiezza di orizzonti, all’apertura verso nuovi problemi e alla propria ricchezza spirituale»[10].
L’unico strumento che lo psicologo [11], sperimentatore del tempo che sopravviene, può usare durante una cura è se stesso in rapporto alla soggettività dell’altro, attraverso il palpitare della propria anima all’unisono con le vicende altrui (Jaspers).
E’ sicuramente appare utile descrivere alcune categorie fenomenologiche del disagio più dell’inconscio[12], che possano aiutarci a capire il mondo umano, qualcosa di quello che accade e avviene nella soggettività ovvero nella interiorità di ciascuna persona quando la sofferenza psichica e l’ansia si accompagna ad uno stato di crisi oppure al vivere, all’esistenza, alle esperienze psicopatologiche[13].
Seguendo tale spunto si è persuasi che il sapere curativo non dovrà essere teorico, ma mirerà a trasformare l’interiorità dello stesso ricercatore e clinico e ad aprirne le infinite possibilità.
Infatti, il fondo misterioso di ciascuno di noi e non solo nel campo della clinica, è la possibilità di essere, dunque la libertà di vivere e cogliere la relazione con l’altro. Occorre tener presente che la scienza psicologica è essenzialmente giovane, ha favorito l’identificazione, culminata già nel positivismo ottocentesco, dell’essere con l’essere conosciuto, ossia con l’oggettività stessa (la persona è oggetto del sapere e chi indaga è un altro essere umano). In tal modo l’uomo si è eretto a misura di tutte le cose e, con la tecnologia figlia della cultura scientifica moderna, ha preteso di dominare l’essere invece di riconoscerlo come orizzonte irriducibile a ogni determinazione concettuale[14].
NOTE
[1] Possiamo solo osservare o cercare di comprendere? Ma cosa significa ‘comprendere’? ‘Prendere con’, «(dal latino comprehensio, -onis) è l’atto e la capacità di capire, cioè di ‘afferrare’ (cum-prehendo, cioè ‘afferro insieme cose che stanno dinanzi a me’) con la ragione un contenuto conoscitivo». Noi conosciamo il corpo sano che può ammalarsi e morire, e dobbiamo affrontare e cercare di curare la malattia per ottenere una guarigione del corpo stesso. Ottenere una restitutio ad integrum di qualcosa che prima c’era e poi si ammala, si rovina, si distrugge. Quindi abbiamo l’obbligo di fare una diagnosi per poi proporre una cura per la guarigione. Il difficile sta nel portare il metodo medico alla psicologia che deve affrontare una malattia della mente che non è un’alterazione organica del cervello o di una parte del corpo. Una distruzione del pensiero dell’essere umano che si è ammalato, e che si esprime magari con un’alterazione del comportamento e del linguaggio, cela nascosta una frattura più profonda che incute paura e per questo è stata sempre considerata inconoscibile. Fare una diagnosi per poi proporre una cura per la guarigione che sia una trasformazione nei riguardi della realtà psichica umana. La realtà materiale, al contrario, non può essere trasformata, il corpo umano così è alla nascita e può solo svilupparsi, le braccia restano braccia e le gambe restano gambe. E anche la natura può essere migliorata, può financo essere distrutta dagli uomini, ma non trasformata.
[2] La sofferenza fa parte della vita di ogni uomo e della storia del mondo. La sua ineludibile presenza costituisce per la riflessione un problema che implica drammatici interrogativi intorno ai quali si sono affaticati numerosi studiosi. Per molti autori, filosofi e scrittori il problema della sofferenza è visto in relazione ai suoi risvolti sulla visione del mondo, che l’esperienza del dolore, sia esso fisico o morale, comporta.
[3] Volendo usare un linguaggio “poco psy” potremmo dire che la cura ampliamento (degli orizzonti personali), diffusione (di prassi positivi nella vita), disidentificazione, dissoluzione semantica interiore (Piro),disvelamento dell’implicito.
[4] Piro S., Critica della vita personale, La città del sole, Napoli, 1995, p.11.
[5] Cfr. Piro S., Op.cit., p.13.
[6] Comprendere o la sua contro-faccia in negativo, sono divenute parole-chiave della psicopatologia clinica, della psicologia e della psicoterapia. Comprendere vuol dire, polisemia.
[7] Questa impossibilità a comprendere dell’osservatore-partecipe ha valore conoscitivo se è un limite toccato continuando peraltro a cercare di comprendere. Il comprendere utilizzato dallo psicologo non si arresta quindi tanto presto. Dal punto di vista intersoggettivo ognuno di noi ha provato la improvvisa e dolorosa esperienza disgiuntiva che emerge in presenza di uno stato di e-straniamento: è una esperienza più netta che quella della irrazionalità ad esempio espressa in comportamenti stravaganti o enigmatici ritiri, dietro i quali uno può sempre sperare o illudersi di ritrovare motivi comprensibili.
[8] In tale processo di empatia, rispecchiamento/identificazione con l’altro giocano, secondo recenti studi, i neuroni specchio ma anche processi immaginifici che ci possono allontanare da una reale comprensione dell’altro. Si può irridere l’empatia considerandola una trappola per il clinico. In realtà l’empatia è per la riduzione fenomenologica la possibilità che abbiamo di riconoscere l’altro come soggetto, come sorgente autonoma di desideri, bisogni, emozioni. In una parola di fondare la costituzione del mondo intersoggettivo nel quale tutti viviamo, e nel quale la costituzione dell’Altro è co-costitutiva della stessa ipseità.
[9] Jaspers K. (1913 - 1959) Psicopatologia Generale. Il Pensiero Scientifico, Roma 1965, p 2.
[10] Jaspers K. (1913 - 1959) Op.cit., p 23.
[11] Alcuni concetti fondamentali di Jaspers, e in parte derivati da Dilthey, sono stati: la distinzione fra "comprendere " in sede psichica e "spiegare" in sede naturalistica; il valore essenziale della “forma” assunta dalla vita mentale come assai più importante degli individuali contenuti per definire i disturbi psicotici; la metodica di avvicinarsi ai vissuti dell’altro con uno sforzo di immedesimazione costante e consapevole; il valore dello strumento “empatico” per poter rivivere in noi l’esperire altrui.
[12] Volutamente chi scrive intende tenersi alla larga dal concetto freudiano e della psicologia analitica di inconscio onde evitare furvianti analisi. Nonostante alcuni filosofi avessero alluso a fenomeni della psiche non accompagnati da consapevolezza: il primo a utilizzare la parola ‘inconscio’ (das Unbewusste) è stato Schelling nel 1800 in una pagina del Sistema dell’idealismo trascendentale. Schelling si riferisce a un’entità spirituale che trapassa i confini della psiche individuale e sancisce così la caratteristica di inconoscibilità dell’inconscio. L’inconscio è dunque qualcosa che non si può conoscere e che guida il mondo al di là della volontà degli esseri umani. Utilizzare la parola Unbewusste come sostantivo e non come aggettivo determina che l’inconoscibile non potrà mai essere conosciuto e condanna gli esseri umani a essere in balia di forze oscure. «Il termine tedesco è un sostantivo, c’è l’articolo das, non è aggettivo [...] nell’inconoscibile, il discorso è spirituale, quindi degno soltanto di credenze» (Fagioli M., L’IDEA della nascita umana. Lezioni 2010, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2015, p. 142). Ma noi sappiamo che esistevano altre parole tedesche che tentavano di indicare il non-cosciente, tra cui das Ungewusste (‘il non saputo’), che poteva lasciare la libertà di tentare di scoprire ciò che ancora non era conosciuto. Schelling sceglie das Unbewusste (‘l’inconoscibile’), che contiene un significato profondo di impossibilità di conoscenza. Lo sconosciuto, il non ancora conosciuto ma con possibilità di conoscenza, diventa inconoscibile.
[13] Il mondo è oggetto della conoscenza scientifica: nel loro dominio le scienze hanno una validità universale e vincolante, ma la necessità del sapere scientifico è ipotetica e non assoluta: essa si fonda o su fatti che sono irriducibili alle leggi della logica o su postulati non evidenti per se stessi.
[14] Seguendo le tracce di Anassimandro (VII-VI sec. a.C.), Jaspers indica l’essere come il “tutto-abbracciante” (periéchon), che mai potrebbe essere circoscritto, ossia entificato. L’uomo non può essere ridotto ad oggetto.