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Pubblicato su "Il Mattino" lunedi 16 luglio 2012

Fare un confronto tra il sistema universitario statunitense e quello italiano è cosa complessa. A mio modo di vedere bisognerebbe sempre contestualizzare le diversità rispetto alla storia, alle condizioni economiche, politiche e sociali di un Paese. Diversamente, si rischia di sembrare critici in maniera sterile o persino sprezzante verso l’uno o l’altro Stato. Volendone prescindere è fin troppo evidente che la caratteristica principale dell’Università Americana è la competitività, a volte così spinta, da risultare esasperata. Ricordo la mia prima esperienza lavorativa, poco più che ventenne, come allievo del premio Nobel, J. Watson, al Cold Spring Harbour Laboratory. Se da una parte ero galvanizzato da un ambiente ipertecnologico e all’avanguardia dall’altro sentivo lo stress e la tensione di dover raggiungere il risultato. A quegli anni di intenso lavoro risalgono alcune delle mie scoperte sui fattori chiave nella regolazione del ciclo cellulare e alcuni dei meccanismi centrali alla base dello sviluppo del cancro. Ricordo che i miei colleghi ed io non avevamo sosta. Esisteva solo la ricerca. Il sogno americano esiste, perché il merito ti viene riconosciuto, ma sicuramente arriva dopo avere speso sacrificio e fatica. I presidi e i rettori delle università americane guardano annualmente al numero e alla qualità delle pubblicazioni scientifiche del docente, alla sua abilità di attrarre

finanziamenti pubblici e privati. E tanto fa di te un professionista con capacità manageriali. Dall’altro lato i finanziamenti cui accedere presentano oggi, più di ieri,un marcato risvolto applicativo. Si investe sulla ricerca che realmente innova, sviluppa, incentiva altra ricchezza. Si taglia sulla parte di ricerca più segnatamente speculativa.

Per quanto riguarda l’Italia direi che, finalmente, ci troviamo in una fase di cambiamento. Anche da noi si è ormai compresa la necessità di utilizzare la ricerca per produrre innovazione, creare nuovi posti di lavoro, aumentare la prosperità e migliorare la qualità di vita. Ovviamente, i meccanismi vanno sperimentati, rodati ed implementati,

ma noto senz’altro una maggiore attenzione e sensibilità degli Atenei verso una ricerca di questo tipo.

La nostra cultura e i nostri metodi non vanno cambiati; forse solo focalizzati meglio. I giovani italiani hanno un valore aggiunto: vengono educati al ragionamento e alla logica e questo li rende duttili e adattabili ai diversi contesti di lavoro.

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