Coloro che curano la sofferenza di questo nostro tempo sono gli sperimentatori del tempo che sopravviene, un tempo di cui nulla è possibile prevedere, nulla sognare, nulla immaginare: i ricercatori che partono dal nulla sono i protagonisti dell’ulteriorità. Piro S. 1997
Gli psicologi sono consapevoli che, di incontro in incontro, occorre sperimentare la propria interiorità (flusso di coscienza, emozioni, idee stabili, idee nascenti, ragionamento) per comprendere l’altro.
Sanno che, in alcuni casi, occorre condividere stati emotivi, che ciascun individuo umano non solamente è cresciuto insieme con il suo ambiente (famiglia, contesto sociale, lavoro, ecc.), sviluppandosi come psiche, ma trova la condizione necessaria di tale suo sviluppo nella sua relazione
con altri individui umani: la soggettività nasce come inter-soggettività dal campo antropico, nella reciprocanza dell’incontro con l’«altro»[1].
La nostra vita infatti si esprime attraverso vari stati d’animo strutturati e non solo mediante le crisi di identità, le mutazioni individuali, i rituali di crescita, i cambiamenti epocali[2].
David Hume nel 1737 nel Trattato sulla natura umana affermava che gli errori nelle teorie sono solamente ridicoli, ma gli errori nella pratica sono pericolosi.
«Vi sono alcuni verbi che connotano particolari imprese conoscitive. Per le scienze dello psichico essi mi paiono essere: comprendere versus spiegare, interpretare, illuminare-vedere. Interpretare, come si sa, appartiene principalmente al vocabolario psicoanalitico, mentre illuminare e vedere sono propri della declinazione antropo-analitica della psicopatologia fenomenologica. Ma quando si parla di fenomenologia psicopatologica si tratta di fondazione, di “implicazione” fenomenologica, e non di “applicazione” di una filosofia, come appunto quella “gigantesca vivisezione della coscienza” che è la filosofia di E. Husserl, alla ricerca psicopatologica, visto che non credo esista una qualunque filosofia che possa dettare regole e vincoli alla ricerca psichiatrica. D’altronde non c’è, né potrebbe esserci, psichiatria che non risenta di un qualche sistema filosofico, ma una impresa scientifica dovrebbe essere massimamente attenta soprattutto alla propria fondazione epistemica, ai propri presupposti».
Per il filosofo -psichiatra Jaspers l'impianto metodologico per la comprensione dell'altro si dovrà fondare sul ruolo duplice di Verstehen ed Erklären. Il suo metodo fenomenologico viene chiamato ‘metodo comprensivo’ (Verstehen), perché l’oggetto si determina in base alla soggettività dell’osservatore-psicopatologo. Nella relazione clinica psicologo-paziente si attua l'incontro tra due persone. L'umano incontra l'umano sul filo sottile delle sofferenze individuali.
«Ma per spiegare l’uomo come fenomeno della natura occorre oggettivarlo e considerare la psiche non come atto intenzionale, ma come una cosa del mondo da trattare secondo le metodiche oggettivanti che sono proprie delle scienze naturali. Ora, se la psicologia obiettiva lo psichico, e, come fa la fisiologia con gli organi corporei, lo tratta come cosa in sé che non si trascende in altro, la psicologia, per allinearsi sul modello delle scienze naturali, perde la specificità dell’umano e quindi ciò a cui essa è naturalmente ordinata»[3].
Questo approccio per la comprensione del mondo vissuto dei pazienti è seguito da un altro metodo, lo ‘spiegare’ (Erklären), volto a estrarre nessi causali (le ragioni della cura, i motivi); ma questo è un approccio dall’esterno che può solo subordinarsi alla fenomenologia, che comprende invece il vissuto dall’interno. «Noi spieghiamo la natura e comprendiamo la vita psichica», affermava nel 1894 il filosofo Wilhelm Dilthey (1833-1911). Riguardo i processi di cura lo stesso Jaspers riprende la definizione di Dilthey:
«Impiegheremo sempre l’espressione comprendere (Verstehen) per la visione intuitiva dello spirito, dal di dentro, [...] spiegare (Erklären) il conoscere i nessi causali obiettivi che sono sempre visti dal di fuori. [...] Con il comprendere genetico – spiegare psicologico da contrapporre a ragione allo spiegare causale, obiettivo [...] – si giunge, in psicopatologia, subito a un limite. Lo psichico emerge ed appare come qualche cosa di nuovo in modo del tutto incomprensibile per noi»[4].
A volte, in campo clinico, tale individualità e inter-soggettività è protesa alla conoscenza di ciò che succede nel mondo e trasformazione dell’altro per scopi terapeutici[5]. Quindi, da parte dell’uomo, vi è sempre lo slancio proteso alla conoscenza e alla trasformazione dell’altro (autotrasformazione ed eterotrasformazioni)[6]
Il tentativo logico ed emotivo di cogliere i processi emotivi interni, il percorso teso alle definizioni e precisazioni dell’apparato tecnico, senza le quali ogni operazione di cura, lavoro sociale e didattica, anche la più elementare, sarebbe impossibile.
Per chi scrive, come "tecnico della coscienza" che opera nel campo dell’Antropologia trasformazionale, l’unica spinta per iniziare una cura è, oltre al desiderio di approfondire la conoscenza del mondo personale (intimo, privato, segreto), di mettersi in viaggio, l’Erlebnis di trasformazionalità potenziale, che è un atto di reciprocità emozionale: esso non deriva, da nessun discorso o prodotto espressivo esplicito (“conscio” nel linguaggio comune), né tanto meno dalle parole, bensì da una serie di segnali marginali accessori, sub-liminali e di messaggi che danno a «noi esaminatori» l’emozione inconfondibile della risposta emotiva-sentimentale utile alla cura[7], la scintilla che fa nascere una sana relazione umana. Si cura l’altro, quasi sempre, immergendosi nell’umanità fluente, nel mondo delle emozioni, di ciò che accade e si proietta nel futuro.
Molti intuiscono che un paziente migliora , in un dato momento, allo stesso modo con il quale un innamorato coglie, intuitivamente, il senso di una positiva disponibilità dell’amata prescelta.
La cura urge del desiderio di essere curato e di prendersi cura di se. Pertanto essa è possibile con qualunque paziente che fattualmente l’accetti, se vi è disponibilità esistentiva totale del curante.
Ogni attesa di cose future è sempre impastata d’immagini di cose passate ma non per il paziente che soffre psichicamente. Nell’interruzione del «contatto vitale con il mondo» gli atti del paziente sono «a corto-circuito» (E. Kretschmer). Così, dall’attività del soggetto che soffre il «mondo» resta fuori, appare lontano dai progetti di vita in corso. L’interruzione del contatto con il mondo segue al venir meno del suo fondamento, cioè alla rottura del contatto con gli «altri», anche con quegli «altri» che l’io stesso è. Allora, la persona soffre di sensi di colpa e frustrazioni, amarezze e delusioni senza riuscire a proiettarsi nel mondo, in ciò che sta per accadere. Ne è testimonianza l’emozione rigida del volto, la pietrificazione delle emozioni e il linguaggio asciutto nel dire.
NOTE
[1] Cf. E. Husserl, M. Scheler, A. Schutz, L. Binswanger, D. Cargnello, B. Callieri, E. Borgna. Il «mondo proprio» di ognuno sono gli «altri» da lui incontrati, e le sue stesse immagini specularmente restituitegli dalla loro soggettività. Perciò la sua coscienza è l’aprirsi non solo del mondo al soggetto, ma del soggetto a se stesso. Nel Settecento il pensiero di Fichte aveva già enunciato tali principi in termini idealistico-trascendentali.
[2] Tra le quali cito le identità affettive: siamo figli, padri, madri, fratelli, amici; le identità sociali ovvero i vari ruoli che interpretiamo nella società: il medico, l’idraulico, il falegname, l’impiegato postale, ecc. Ad ogni ruolo corrisponde una microidentità. L’insieme delle micro identità compone la Persona in cui riponiamo la nostra identità esistenziale. La crisi in una di queste identità, se grave, se colpisce il senso profondo del nostro essere Persona, provoca la crisi esistenziale. In questo caso viene ad incrinarsi il senso stesso della nostra presenza nel mondo L’identità e gli archetipi. La psiche dice Jung è formata da archetipi, cioè da strutture ancestrali che ci portiamo dentro fin dalla nascita. Gli archetipi sono come degli stampini entra i quali si organizza l’energia psichica. Questa unità informatica a sua volta organizza i nostri vissuti, i nostri pensieri e infine i nostri comportamenti. Quando siamo identificati in una forma archetipica tendiamo a pensare e sentire il mondo attraverso di essa.
[3] Galimberti U., Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano, 1991, p.52. Si ricorda come la scissione cartesiana della persona in res cogitans e res extensa è divenuto un modello culturale per la spartizione delle scienze in scienze dello spirito e scienze della natura. Tale lacerazione dell’uomo e della donna sulla sua divisione in anima e corpo, spirito e materia in stretta connessione con il modello dualistico platonico hanno condizionato anche la scienza psicologica che tenta di oggettivare l’uomo.
[4] Jaspers K. (1913 - 1959) Psicopatologia Generale. Il Pensiero Scientifico, Roma 1965, pp. 29-30.
[5] Cf. la prospettiva filosofica di Masullo nel saggio intitolato Il tempo e la grazia. Per un’etica attiva della salvezza (1995). In questo testo, di nuovo attraverso approfondimenti filologici e ricognizioni letterarie, egli esplora il fondo oscuro della soggettività, «l’autoaffezione affettiva del tempo», il trauma originario della perdita e della scissione che il fenomeno del cambiamento «repentino» esibisce nella sua nudità. La soggettività è caratterizzata secondo le analisi di Masullo da contingenza, irreversibilità e impersonalità. Si tratta di una concezione della frantumazione e della frammentazione della soggettività.
[6] La tensione forte verso l’altro, nel campo della cura, non sempre è fonte di guarigioni, spesso comporta conseguenze inevitabili e a tratti imprevedibili: la coscienza si protrae e muta senza sosta durante il processo terapeutico. Ogni atto linguistico-emotivo produce conseguenze di conseguenze dentro di noi, fuori di noi, nell’interiorità. Chi si protende verso la conoscenza dell’altro o degli altri, fa esperienza di osservati che si possono costituire nelle forme prescritte dal sapere e dalle discipline accademiche (osservati psicologici, linguistici, sociologici, antropologici) o di osservati che sono espressione di uno straordinario miscuglio di opinioni, credenze, ideologie, sistemi di valori. Questi osservati sono talora prevalentemente linguistici, ancorati al mondo delle parole, al dire, talaltra sono prodotti “fisici”, visibili quali espressioni, mimiche, barlumi segnici che l’accadere dell’accadere produce nell’interazione umana .
[7] Seguendo tale approccio Antropologia trasformazionale, la disponibilità trasformazionale del «paziente» è ubiquitaria, rispetto alle cosiddette «forme», ma non universale: vi sono singole persone disponibili oppur no in quel momento o in quel periodo alla cura e al prendersi cura di se, indipendentemente dai caratteri nosograficamente codificati della loro condizione
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