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E' molto spesso evidente, nel campo osservazionale della clinica psichica, come il linguaggio psicopatologico dei pazienti (ansiosi, fobici, depressi, etc.), in alcune occasioni, appaia come l’impressionante contraddizione di una resa umana (il mondo si allontana dal paziente….) ovvero  come un disperato tentativo di non darsi per vinti.

Al di là della soggettiva scelta, da parte del clinico, di un tecnica o una  collaudata pratica terapeutica, occorre dire che la cura della sofferenza oscura (nevrosi, depressioni, dissociazioni, tensioni emozionali, etc.) è, almeno inizialmente, una pratica intuitiva, non diversa qualitativamente dalle relazioni umani presenti nella quotidianità e dagli interventi attivi di qualcuno verso altri (individui singoli, gruppo).

Tale pratica intuitiva  appare simile, per certi versi,  a tutte quelle forme trasformazionali di cura della persona, primitive, tradizionali, popolari, magiche, dalle quali forse, in modo positivo, direttamente deriva. Tutte le pratiche di guarigione hanno una antica origine.  

Spesso la cura si presenta come una pratica piatta e vuota, senza potenzialità conoscitive autentiche, (quando dà risposta al tentativo di massa di esorcizzare l’angoscia della coartazione, della limitazione esistenziale, della quotidianità avvilita, del vissuto d’opaca inutilità). Spesso la cura si pone come "narrazione vuota"  quando utilizza il "racconto pettegolo" dei propri guai personali, sentimentali, relazionali, sessuali, culturali, etc., fatto a un «esperto» atto a risolvere taumaturgicamente il male e a iniziare il «paziente» alla felicità. 

Di solito è il polimorfismo delle iniziative terapeutiche che tende a porre un campo unificato della trasformazionalità. Tale trasformazione umana va ininterrottamente dalle più raffinate forme d’intervento nella sofferenza ontica degli intellettuali alla riabilitazione estesa e creativa della deficienza mentale, dalla mobilitazione interiore.

 

«Nelle «scienze umane applicate» vi è sempre una qualche difficoltà (talora esplicitata e talora no) a separare con nettezza lo strumento di ricerca dal suo oggetto, il risultato dalla premessa, non appena si abbandoni il sentiero comodo e sicuro della ricerca nomotetica e ci si appresti allo studio empirico (ma non ingenuo) dell’accadere antropico. Questo (l’accadere antropico) può essere descritto come un grande magma ribollente, labile e evanescente, che si rispecchia, deformandosi, nel caleidoscopio infinito e mutevole del linguaggio. Eppure vi è sempre la necessità (per chi in quel magma si staglia, nell’illusione dell’affioramento coscienziale, come individualità protesa alla conoscenza e trasformazione dell’altro) di definizioni e precisazioni, senza le quali ogni operazione, anche la più elementare sarebbe impossibile»[1].

 

La protensione o spinta alla cura, da parte del clinico,  verso l’altro (sofferente) comporta operativamente (e necessariamente) a non separare ciò che accade interiormente nella relazione tra terapeuta e paziente.

 

«Le metodologie della ricerca «qualitativa» tendono a variare con il variare delle concezioni ideologiche, doxiche, epistemologiche dei ricercatori, così come sono varie e molteplici le valutazioni di tali ricerche, essendo anch’esse (le valutazioni) dipendenti direttamente da concezioni ideologiche, doxiche ed epistemologiche»[2].

 

Nel rapporto curante e curato  esiste, come possibilità ultima, la comunicazione esistenziale, che va oltre ogni terapia (Jaspers). Nel contesto scenico della cura si progetta e si inscena una relazione umana, un metodo.

Nel campo della medicina (e nel settore in genere delle scienze della natura) lo strumento osservazionale è costituito da oggetti costruiti dall’uomo (oggetti, sistemi ottici, elettronici, etc., nonché ogni genere di strutture euristiche e formali), mentre nelle scienze antropologiche o della psiche lo strumento di lavoro sembra esser dato e costituito dalla «presenza umana» intesa come un processo linguistico e di riflessione della coscienza.

«Tuttavia unitari rimangono, in entrambi i casi, il punto di partenza e il punto di arrivo del processo conoscitivo: la protensione  iniziale del ricercare (il progetto) e l’inserimento dei dati in quadri di senso generale, di orizzonte, di visione del mondo e del sapere.…Anche nelle scienze naturali infatti, lo strumento conoscitivo è linguistico, sia nella protensione iniziale a quella ricerca o a quel determinato evento mirato, sia nell’interpretazione generale finale (di significato, di connessione, di senso, etc.), discostandosene invece nell’apparato oggettivo strumentale ed euristico intermedio; le datità comuni – nel senso generale – riaccostano (necessariamente) i due modi del conoscere»[3].

NOTE

[1] AA.VV. , Prassi trasformazionali in campo di esclusione antropica (rapporto conclusivo a cura di Antonio Mancini), La città del sole, Napoli, 2006, p.14.

[2] AA.VV., Prassi trasformazionali in campo di esclusione antropica  (rapporto conclusivo a cura di Antonio Mancini), La città del sole, Napoli, 2006, p.14.

[3] Piro S.,  Trattato della ricerca diadromico-trasformazionale, La città del sole, Napoli, p.39.

 

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